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Articoli e saggi

Recensioni e segnalazioni
Luogo che propone articoli di giornali o riviste, cartacee o on line, che offrono spunti per riflessioni e critiche.
10 gennaio 2017
Cambiare lo sguardo
 Ho scelto due articoli molto diversi tra loro per gli argomenti che affrontano e per i punti di vista che propongono, non contrastanti seppure tutt’altro che convergenti. Hanno almeno due punti in comune cui non ci si può sottrarre. La guerra innanzitutto. La guerra in Medio Oriente e quella in Nord Africa, ma anche quella che chiamiamo terroristica e ci sta colpendo nei modi più impensati nelle nostre città, nei nostri ristoranti, nei nostri luoghi di svago. Che poi è sempre la stessa guerra. Il secondo punto è l’impatto col fenomeno massiccio dei migranti, o dei profughi, o dei clandestini, o di coloro che, non essendo noi, ci stanno invadendo, che è come definiamo i loro arrivi secondo il punto di vista con cui li guardiamo.
Questi due articoli ci danno la possibilità di uno sguardo un po’ più ampio, senz’altro insolito, di quello che abbiamo reso usuale, perché si addentrano in meandri poco esplorati della nostra psiche e dei nostri modi di pensare e di guardare, quelli che normalmente teniamo un po’ in disparte. Un po’ troppo in disparte. Soprattutto ci permettono di riflettere in un modo differente da quelli con cui ci stiamo abituando, con cui stiamo incancrenendo il nostro rapporto con ciò che ci sta capitando. Ci regalano visuali che stimolano spirito e curiosità dello sguardo perché cercano di muoversi verso un ampliamento della complessità. La stessa complessità che è la caratteristica costante della realtà, ma che i nostri sguardi non sono abituati a indagare, o perché si rifiutano di farlo, o perché non vogliono vedere, o perché non sospettano neppure che il mondo che ci circonda sia in fondo diverso, più ampio e molto più difficile degli stereotipi limitanti che continuamente ci fabbrichiamo per difenderci dalla sua costante invadenza.

In sostanza che cosa ci dicono questi due articoli?
Roberto Calasso, sul Corriere della sera del 4 gennaio scorso, con grande eleganza intellettuale e grande chiarezza, analizzando ciò che l’Isis dichiara nei suoi proclami e nelle sue rivendicazioni, ci dice sostanzialmente due cose. Da una parte ci spiega perché ritiene stolto tentare di non pubblicare e far conoscere quei proclami e quelle dichiarazioni, per quanto li possiamo considerare deliranti. La censura del linguaggio e dei contenuti del nemico impedisce di conoscerlo, quindi di affinare armi e strumenti per combatterlo e non ricavarne danno. Dall’altra che l’Isis ci ha dichiarato guerra perché considera l’occidente suo nemico in quanto pagano. Un paganesimo comprendente sia gli “storici” infedeli, sia gli atei, sia tutti coloro che ripudiano l’islam e non si assoggettano ad esso, quell’unica visione dell’islam che ritengono sola valida. Il loro islam ovviamente. Naturalmente l’articolo, sempre con grande eleganza, ci dice altre cose e, seppur nella sua brevità, riesce ad andare abbastanza a fondo nel tentare di sviscerare questi aspetti.
Toscano e Cadalanu invece, su La Repubblica del 6 gennaio, cercano di riportarci alla consapevolezza del percorso storico che ci ha condotto al punto in cui siamo. Detto in sintesi, per quanto ci sforziamo, di fatto consideriamo diversi da noi tutti quei devastati dalle guerre in medio oriente. Ci sentiamo superiori perché abbiamo “democrazia e libertà” che loro non hanno. In realtà, ci dicono, non ha senso che ci vantiamo di quello che pensiamo di avere in più.
Riporto un pezzo emblematico: … dato che solo ieri, se misuriamo nei tempi della storia umana, la nostra religione era fondamentalista e settaria (gli scontri fra sunniti e sciiti non sono niente di fronte alla ferocia delle lunghe guerre di religione fra cattolici e protestanti), i nostri costumi ottusamente maschilisti, l’esercizio del potere crudele e arbitrario. E invece discettiamo di democrazia, libertà politiche e tolleranza religiosa come se fossimo stati sempre democratici, liberali e tolleranti, dimenticando o facendo finta di dimenticare come sia stata lunga e difficile, e spesso anche sanguinosa, la strada per trasformare il dissenso in garanzie, per creare uno stato di diritto per cittadini e non sudditi, e per mitigare all’interno delle nostre società la belluina ferocia di identità militanti.
Un altro aspetto rilevante dell’articolo è che noi pretendiamo d’imporre ed esportare valori, per i quali ci sentiamo superiori, quando per molti versi li stiamo rinnegando, se non tradendo. Che senso ha pretendere che i nostri valori vengano presi in considerazione nel momento in cui noi stessi abbiamo smesso di credere in essi? Come facciamo a predicare la democrazia liberale quando da noi la democrazia si sta sempre più trasformando in un semplice sistema maggioritario, con sempre meno garanzie e rispetto per i diritti delle minoranze?
Naturalmente anche questo articolo ci dice altre cose e, seppur breve, sviscera a sufficienza gli aspetti che denuncia, offrendoci un panorama di riflessione che mette in crisi presunte certezze, ammesso che ancora ce ne siano, cominciando a smascherare l’ambito delle ipocrisie, sia nostre che loro, su cui si sorreggono, con grande debolezza in verità, spiriti d’appartenenza e spinta a vincere guerre che già di per sé ci fanno perdenti in partenza.
Avendoli riportati entrambi qui sotto, per chi è interessato alla loro completezza invito a leggerli.

La realtà dunque è molto più complessa e contraddittoria di come tendiamo a rappresentarcela. Quando prospettiamo soluzioni, ammesso che lo facciamo, siamo motivati dai criteri e dai pregiudizi coi quali giudichiamo e ci proponiamo e loro ci giudicano e si propongono. Un atteggiamento che non può portare a soluzioni, bensì non fa altro che continuare a predisporre allo scontro e alla rivalsa.

Dobbiamo smettere di avere paura, perché la paura allontana, spesso in modo irreversibile. Dobbiamo pure accettare di diventare curiosi, perché la curiosità stimola la conoscenza. Abbiamo bisogno di capire e necessità di rinnovare la nostra esistenza. Se non lo faremo, presto o tardi la realtà che incombe ci farà a pezzi, disintegrando ogni sguardo stereotipato che voleva ingabbiarla nelle nostre piccolezze quotidiane, così insignificanti e distanti dalla potenza di questa realtà invasiva, al di là di tutto e nonostante tutto. Non si tratta di trovare soluzioni immediate, perché non ce ne sono. Si tratta invece di cominciare a capire e di trovare forza e voglia, oltre al desiderio, di cambiare per cominciare ad essere più liberi, dentro di noi e nelle relazioni l’un l’altro. Di cambiare profondamente modo di guardare, di scandagliare la realtà, di vedere e desiderare noi stessi e il rapporto con gli altri da noi. Se riusciremo a mettere in moto questo insieme di cose, le soluzioni verranno e saranno anche soddisfacenti. Se non lo faremo, continueremo ad essere immersi in queste guerre che sembrano fatte in serie, fino ad uscirne devastati. Più che di soluzioni abbiamo bisogno, tutti, d’invertire la marcia, perché l’itinerario che stiamo percorrendo ci porterà all’annichilimento.
Andreapapi
Dobbiamo superare le reticenze sull’islam
Prigionieri di Daesh

 Mosul, l'ultima frontiera dell'Occidente  Profughi di Mosul

30 agosto 2016
Il Marchionne “progressista”
 Un Marchionne sopra le righe si è mostrato coi panni di un’umanità “quasi misericordiosa” per continuare ad affermare la propria dignità di manager globale. Ricordava quasi il Gordon Gekko, falsamente pentito, del seguito di Wall Street di Oliver Stone, che in conferenza agli universitari denuncia l’avidità della finanza come il male principale da cui siamo subissati. Nella serata del 27 agosto, alla Luiss di Roma, per premiare con Emma Marcegaglia gli studenti vincitori della seconda edizione della Rotman European Trading Competition (RETC), l’attuale manager di Fiat-Chrysler ha pronunciato un discorso sorprendente, in cui ha denunciato i mali del capitalismo, secondo lui, in questa fase.
«Un sistema che per secoli si era basato su integrità, responsabilità e fiducia — ha detto — all'improvviso è stato completamente ribaltato da due fattori: l'affermarsi di una cultura egocentrica e guidata dall'avidità, e l'inadeguatezza dei meccanismi di pianificazione e controllo a livello di consigli di amministrazione.» «… gli eventi hanno sottolineato l'esigenza di rivedere il capitalismo stesso, il ristabilimento dei mercati come struttura portante che disciplina le economie ma non la società … – ha continuato – Esiste un limite oltre il quale il profitto diventa cupidigia e coloro che operano in un libero mercato hanno anche l'obbligo di agire entro i limiti di ciò che una buona coscienza suggerisce.»
Tutta una serie di affermazioni, insomma, che spingono a chiedersi cosa ci facesse in quella parte “quasi innovatrice” uno dei manager più pagati al mondo, finora descritto dai media più interessato alla speculazione finanziaria che all’efficienza produttiva. Poi, verso la fine, quasi pacatamente e con accenti un po’ enfatici di nobiltà d’animo: «… servire uno scopo più alto e nobile, cioè perseguire i nostri obiettivi nel rispetto della dignità umana e delle esigenze della società». Detto così suona benissimo e sembra in linea col personaggio con cui ci aveva sorpreso. Il problema è che non si capisce bene quali sarebbero gli obiettivi da perseguire, proprio perché non li dice. Guardando come funzionano le cose, in verità sembra che oggi la voglia di denaro e i mezzi per procurarselo siano al di sopra di ogni morale e ogni considerazione umanista. Lui stesso lo aveva specificato nel suo intervento: « Perseguire il mero profitto, scollegato da qualsiasi responsabilità morale, non soltanto ci sottrae la nostra umanità, ma mette anche a repentaglio la nostra prosperità a lungo termine.»
Ciò che manca in questa performance di adombrata “commovente umanità” è proprio come fare a continuare a far soldi su soldi e a rimanere inseriti nel flusso dell’egemonia globale diventando, improvvisamente, etici e attenti ai problemi delle genti, le quali dovunque si stanno impoverendo e contano sempre meno. Ciò che non dice è come sia possibile, rimanendo i mercati e l’imperio finanziario, a ridisegnare e rendere fattiva una società più giusta, più umana e molto più attenta all’equità, come sembra voler sostenere.
Personalmente sono convinto che non lo dice perché non è possibile. Da troppo tempo esiste il problema annunciato di “dover” moralizzare il capitalismo, in parallelo a quello di moralizzare le politiche del potere. Ogni tanto qualcuno, anche di conclamato grande valore, ci si mette con impegno e ci prova, ogni volta non riuscendo nell’impresa semplicemente perché le configurazioni e le metodologie che determinano la sopravvivenza dei sistemi vigenti sono fondati al di là della morale, sull’appropriazione personale, sull’esaltazione pratica dell’avidità e della voglia di supremazia. Machiavelli insegna. Dopo mezzo millennio la sua distinzione tra etica e politica come necessità insita è più viva che mai. La “ragion di stato”, di machiavellica memoria, e il bisogno di accumulare ricchezze, costi quel che costi, continuano ad essere i fondamenti su cui si regge l’esistente e nessuna rivoluzione finora è riuscita ad intaccarli.
Malauguratamente per lor signori, però, il sistema comincia ad essere logoro e, al di là di ogni intendimento e pervicacia, ha cominciato a scricchiolare parecchio. Lo dicono le condizioni di vita della massima parte degli esseri umani, che stanno diventando veri problemi, che neanche le ricchezze più smodate sono in grado di risolvere se non si cambiano metodi e approccio alle questioni. Marchionne, pur essendo dalla parte della minoranza privilegiatissima, è tra coloro che sente e intuisce che bisogna correre ai ripari, perché se non lo si fa c’è il rischio di mettere … a repentaglio la nostra prosperità a lungo termine. Purtroppo, volendo continuare a … perseguire i nostri (i loro) obiettivi …, come ha specificato a chiare lettere, non riescono a capire come fare. Spinti dal “bisogno” di uscirne cominciano allora a parlarne, per suscitare interesse e denunciare l’incombenza, … mentre tutto procede, imperturbabile, come se non ci fossero problemi.
Andreapapi
la Repubblica - C'è un limite al profitto, capitalismo da rivedere

11 luglio 2016
 
Robot come manodopera
L’articolo che segnalo, pubblicato sul sito Contropiano, è mosso dalla preoccupazione che in un futuro molto prossimo i migranti possano essere rifiutati per mancanza di lavoro, in quanto sta progredendo un processo di automazione che in tendenza sostituirà il lavoro finora portato avanti da braccia umane. Preoccupazione giustissima perché, come ormai viene denunciato da più parti, effettivamente l’automazione avanza a passi da gigante e prima o poi il problema dovrà per forza porsi.
L’articolo parla in particolare dei migranti perché si riferisce in specifico ai tipi di lavoro nel campo agricolo/alimentare, in cui oggi sono la manodopera fondamentale. Ma il problema che pone in realtà è molto più ampio, dal momento che l’automazione è un processo di razionalizzazione e riorganizzazione in atto che riguarda tutto il mondo del lavoro in quanto tale. Lo stesso articolo accenna che …le vendite di robot nell’industria europea sono cresciute del 10 per cento… rendendo consapevoli che il processo di cui stiamo parlando progredisce in modo vistoso. Alla fine si limita a porre un quesito classico della problematica dell’economia politica. «Rimane, ancora una volta, la contraddizione di fondo: a che servono gli aumenti di produttività se in pochi potranno comprare le merci prodotte dai robot?».
Personalmente sono sempre più convinto che i problemi e le problematiche scatenati da tali processi, che sono in grado d’innestare vere e proprie mutazioni antropologiche (nel lavoro, nelle relazioni e negli assetti sociali, nelle relazioni economiche) occupino un terreno molto più vasto dell’ambito specifico delle vendite e del profitto, come invece sembra limitarsi a porre Panofsky, autore dell’articolo. Qui è in ballo molto di più, destinato a stravolgere gli assetti relazionali che conosciamo. Per il fatto, per esempio, intuitivo e complesso al tempo stesso, che non sarà possibile continuare a legare il “diritto” di sopravvivenza e di vita al “dover lavorare”. Senza compensi o emolumenti, che rappresentano un grosso ricatto esercitato dalle oligarchie dominanti nei confronti delle genti e dei popoli subordinati, oggi è infatti praticamente impossibile sopravvivere. Verosimilmente fra non molto, quando la manodopera sarà stata sostituita quasi del tutto, non sarà più possibile.
Le prospettive e gli orizzonti che ci devono illuminare devono perciò necessariamente oltrepassare, a questo punto i limiti, della classica teorizzazione di lotta anti/profitto e anti/capitalista. Il problema principale ha smesso di essere il padronato. Le oligarchie dominanti oggi sono qualcosa di molto più potente e di peggiore dei detentori della proprietà privata, gli obsoleti capitalisti di marxiana memoria. I centri nevralgici del dominio si sono trasferiti dai luoghi produttivi alle “topie” finanziarie, scardinando le relazioni strutturali su cui si fondava la classica “lotta di classe”. Dalle classi determinate dai rapporti di produzione, come acutamente analizzava Marx, alle condizioni di vita obbliganti imposte da reti virtuali sovra territoriali e oltre le divisioni classiste.
Non possiamo più permetterci di pensare e ragionare con quelle categorie di lotta, perché non sono più in grado d’interpretare gli avvenuti mutamenti, il cui divenire in atto li sta a poco a poco definendo e palesando. Vivendola come una motivazione impellente e indifferibile, è una tematica che personalmente avevo già in parte affrontato in due articoli pubblicati su A rivista anarchica: Il futuro è già qui (n 400, estate 2015) e Liberiamoci dal futuro del presente (n 385, dicembre 2013).
Dovremmo cominciare a ripensare, a porci seriamente il problema di come affrontare la catastrofe antropologica che ci attende (che in parte abbiamo già cominciato a vivere). La risposta dev’essere rivoluzionaria, intendendo per rivoluzione un cambiamento di rotta irreversibile. Non dovremmo permettere che le potenzialità tecnologiche e l’insieme di enormi conoscenze dell’oggi, rispetto alle quali difficilmente si può tornare indietro (rifiutandole come ad esempio suggeriscono i primitivisti) siano ad esclusivo appannaggio e privilegio di un’elite criminale, la quale sta distruggendo il pianeta ed escludendo la massima parte degli esseri umani dalle possibilità che contengono. Esse devono diventare patrimonio comune e condiviso, tale che ognuno possa beneficiarne, nel rispetto degli equilibri naturali, delle differenti culture, delle diversità individuali. Le potenzialità tecnologiche che ci sono e quelle che verranno possono e devono diventare mezzo di ampliamento della libertà, smettendo di essere strumento di aumento del dispotismo sempre più tirannico che ci sta distruggendo.
Andreapapi
CONTROPIANO - giornale comunista online (10 luglio 2016):
Dopo il Brexit: robot al posto dei lavoratori migranti?
                       

30 maggio 2016
Le tasse dell'Isis
Interessante segnalazione sul Corriere della sera di tassazioni imposte dall’Isis (o Daesh) nei territori conquistati dove esercitano il loro terrificante potere teocratico. È l’ennesima dimostrazione di come e quanto sia antiumanista, dittatoriale e coercitiva una cultura assolutista, fondata sul presupposto di una etero/autorità che incombe sugli individui ad essa sottoposti, dove viene annullata definitivamente ogni autonomia e volontà individuale e dove conta solo il “dettato supremo”, in questo caso totalmente ed esclusivamente al servizio di un’entità teocratica, presunta (diciamo noi) ma imposta perché data obbligatoriamente per certa da autorità umane autolegittimantesi, che non ammettono repliche né dissensi.
Andreapapi
Corriere della sera - Tasse del Califfato





21 novembre 2015


La religione dell'Isis
Sul sito WIRED ho rintracciato  questo scritto di Marco Romandini, pubblicato il 20 novembre 2015, che trovo estremamente interessante perché rende chiaro, anche a chi non è addentro alle "cose" islamiche, le basi religiose di riferimento di Daesh, meglio nota come ISIS. A fini esplicativi lo riproduco anche qui.



 
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