C’è un avanzamento progressivo delle destre sia sul piano politico che su quello culturale. È un fenomeno di portata planetaria che sta prendendo piede con sempre maggior veemenza. Anche se in ogni territorio assume peculiarità proprie, ha comunque caratteristiche identificabili che lo distinguono e lo accomunano dovunque: sentimenti xenofobi, paura dei diversi e degli stranieri, con punte non isolate di razzismo, richiesta di interventi decisi a favore del popolo inteso come identità nazionale, richiesta di leader che abbiano aspetto, cipiglio e determinazione dell’“uomo forte”.
È una cultura che propugna il dominio di elite volute dal popolo e che promette sottomissione a chi è in grado di venire incontro ai desideri della maggioranza delle popolazioni nazionali. Accetta le elezioni come risoluzione plebiscitaria e spinge per sentirsi al sicuro da supposte possibili invasioni, cercando eventuali soluzioni ai propri problemi all’interno dei confini tradizionali. La paura del futuro, dei “barbari” (come li chiamavano i greci), di perdere le proprie illusorie conquiste e le proprie illusorie sicurezze, sono alla base di questa svolta globale che sta mettendo seriamente in crisi le visioni politiche cui eravamo abituati.
Sono usciti praticamente in contemporanea sul Corriere della Sera un breve saggio di Zigmunt Bauman (L’america e il caso Trump) e due articoli su Repubblica, uno di Flores D’Arcais (Trump eccessivo, staff in crisi) e l’altro di Federico Rampini (Robert Kagan:“È arrivato il fascismo”). Entrambi parlano del caso Trump, vincitore non ancora designato delle primarie repubblicane negli Usa, quale attuale catalizzatore delle tensioni verso destra. Nei suoi comizi e in ogni apparizione pubblica durante la campagna di queste primarie, Trump si propone, spesso con volgarità dozzinali, come deciso sostenitore dell’esclusione degli immigrati, denigratore della cultura democratica perché causa di debolezza, sostenitore esibizionista di un machismo di bassa lega e propugnatore della forza bruta, tipici argomenti di una destra estrema. Il suo proselitismo sta riscuotendo un grande successo nelle file repubblicane, al punto che nel voto delle primarie ha sbaragliato con ampio margine d’anticipo ogni altro contendente. Secondo gli ultimi sondaggi sarebbe anche in testa sulla Clinton, probabile candidata democratica, alle prossime elezioni presidenziali. Rampini e D’Arcais fanno notare come un certo Robert Kagan, già consigliere di George W. Bush e “neocon” esperto di geopolitica, classico uomo di destra importante nel panorama politico statunitense, abbia condannato preoccupato Trump perché apertamente fascista. Si sono rotti gli indugi, sottolineano i giornalisti, e finalmente si ha il coraggio di chiamare la “bestia” col suo vero nome. Solo che ormai è troppo tardi e il partito repubblicano non riesce a contenere la piena che sta permettendo al “neo/fascismo trumpiano” di irrompere con forza nella “grande politica” americana, fino a insidiare democraticamente la Casa Bianca.
Bauman affronta invece il fenomeno da un punto di vista dell’analisi sociologica, cercando di comprendere quali sentimenti e movimenti più o meno sotterranei stiano dando fiato e consistenza a questo avanzare, ormai innegabile, di una destra che con troppa sicumera qualcuno, in modo superficiale, stava dando per spacciata. La risposta che ci offre è interessante e aiuta a riflettere: «Il peccato imperdonabile della democrazia, agli occhi di un numero sempre crescente di quanti dovrebbero beneficiarne, è la sua incapacità ad attuare quanto promette. Il ruolo di uomo o donna forte, che tanto seduce i candidati elettorali, sta proprio nella promessa di agire. In ultima analisi, l’attrattiva dell’uomo o della donna forte si basa su una serie di pretese e promesse che restano ancora tutte da dimostrare.»
Ciò che Bauman ci offre è senz’altro importante e per molti versi coglie nel segno. Soprattutto non si ferma al caso Trump, ma parte da questo fenomeno per abbozzare un ragionamento su come in generale, in particolare nel mondo occidentale, le destre estreme stiano progressivamente guadagnando terreno. Personalmente aggiungo che non è solo una percezione che la democrazia non ha mantenuto le sue promesse. Oggi constatiamo ovunque come la cosiddetta “democrazia rappresentativa” applicata sia un totale fallimento. Nel farsi ha dimostrato di non riuscire ad essere in alcun modo democratica, fino a poter essere definita una “non-democrazia”. Dando spazio soprattutto agli aspetti del potere, ha in breve annullato ogni vero afflato e ogni vera impostazione concreta di effettiva partecipazione, che erano invece tra le sue promesse fondamentali.
A questa constatazione si accompagna quello che potremmo tranquillamente definire il fallimento/scomparsa della sinistra. Mi riferisco alla sinistra istituzionale, quella che a un certo punto della storia è diventata egemone dentro la “galassia” della sinistra, politicamente ma soprattutto culturalmente. La sinistra rivoluzionaria, molto minoritaria con tutte le sue numerose parrocchie e le innumerevoli frange, ha continuato a sopravvivere totalmente però in modo marginale. La sinistra istituzionale da diversi decenni si è volontariamente suicidata, continuando a definirsi sinistra, o centro-sinistra a seconda dei casi. Ha scelto di abbandonare gli ambiti che l’avevano resa tale: l’anticapitalismo, le tendenze socialiste, l’azione solidaristica/operaia, la propensione cooperativista, l’inclinazione ad agire verso forme concrete di uguaglianza sociale coniugata ad un aumento di libertà, sia individuale che collettiva.
A un certo punto, in modo chiaro e inequivocabile, ha sposato spudoratamente le tesi più spinte del liberismo capitalista, facendo finta di diventarne un regolatore verso i bisogni sociali, mentre si è trasformata in un garante governativo dei sistemi di ingiustizia sociale vigenti contro cui era sorta. Nei fatti sono fallite sia la componente liberale sia quella socialista riformista, quali componenti innovative per una società più giusta, più equa e più attenta ai problemi dei deboli e degli oppressi, trasformandosi di fatto in elemento di conservazione del sistema che avrebbe dovuto abbattere o superare. In definitiva è morta, probabilmente sepolta, lasciando un vuoto enorme che non è più in grado di colmare, ne forse lo vuole più.
La destra invece ha saputo rinnovarsi molto. È riuscita a farsi credere la vera garante dei bisogni sociali dei più deboli, soffiando sul fuoco delle paure che suscitano le “bibliche” migrazioni che stanno sconvolgendo il mondo in questa fase storica. Grandi masse di popolazioni terribilmente vessate nei luoghi di origine, massacrate da fame, guerre, dittature assassine, fanatismi oltre ogni umana tolleranza, premono massimamente disperate verso i luoghi del “benessere”, diventato tale anche e soprattutto per averle sfruttate per secoli attraverso un colonialismo spietato e disumano, alla ricerca di una vita che permetta loro un po’ di sollievo e un minimo di dignità. Questa fortissima pressione mette una grande paura, soprattutto perché il “modello benessere” sta completamente saltando e anche nei supposti stati del fu “benessere” in realtà c’è un malessere sempre più diffuso. Dato il “vuoto cosmico” lasciato dalle sinistre istituzionali, su questa paura le destre avanzanti sono riuscite a costruire una narrazione che solletica il bisogno di essere protetti e si sono offerte di fare i protettori garanti dell’identità in pericolo.
Di fronte a una tale svolta ritengo che abbia veramente ben poco senso un strategia d’azione tutta improntata a cercare, invano, di attaccare il fenomeno “neo/fascista” con risposte essenzialmente violente. Dalla loro violenza, quando si manifesta, ci si deve ovviamente difendere. Ma è impensabile, e non certamente intelligente, supporre di arginarlo soprattutto con una risposta di evocata “violenza partigiana”. I cambiamenti culturali, e quello dell’avanzata delle destre oggi è essenzialmente culturale, non si reprimono mai con la forza. Se ne rimane schiacciati. Ci si difende per non farsene travolgere, ma non ha senso contrapporvisi muscolarmente. Se ne siamo capaci, dobbiamo invece contrapporre un cambiamento culturale vero, ridefinendo prospettive e senso che richiamino agli autentici valori della sinistra, che non può essere più istituzionale. Dovremmo mostrare con i fatti, gli esperimenti e le analisi, che si aprirebbero prospettive allettanti se si abbandonassero e si combattessero il punto di vista e le logiche del sistema di cose presente.
Fortunatamente, all’occasione, le destre stesse ci vengono incontro, anche perché non possono tradire la loro vera natura. Interessante in tal senso ciò che riporta Francesco Giliani nel blog Rivoluzione (Il vero volto di Marine Le Pen), che ci fa sapere che la signora Le Pen, la quale da decenni straparla di voler andare incontro ai bisogni del popolo francese, che per questo ha conquistato la simpatia e il voto di tantissimi operai, rispetto alla rivolta che si sta consumando da settimane in tutta la Francia contro la legge del lavoro del socialista Hollande, propone la solita ricetta di ogni autoritarismo dichiarato o mascherato, la repressione delle lotte e le leggi speciali. Andreapapi